Il Balletto del Teatro di San Carlo porta in scena per Natale il Don Chisciotte, balletto ottocentesco musicato per Marius Petipa da Ludwig Minkus riallestito per la prima volta in Australia nel 1973 da Rudolf Nureev con una nuova coreografia, ripresa da Clotilde Vayer (direttrice del Balletto del San Carlo) e Charles Jude (Fondation Nureyev).
In programma da domani sabato 23 dicembre fino a giovedì 4 gennaio, il balletto in un prologo e tre atti basato su un episodio comico del romanzo di Miguel de Cervantes Don Chisciotte della Mancia, qui nell’allestimento della Royal Swedish Opera, vedrà l’Orchestra del Lirico di Napoli diretta da Johnatan Drlington (per le recite di dicembre) e Maurizio Agostini (in quelle di gennaio).
Scene e Costumi sono di Nadine Baylis, firma le Luci John B Read.
Protagonisti, nei panni di Kitri Claudia D’Antonio (23/12, 27/12, 29/12, 02/01, 04/01) e Luisa Ieluzzi (28/12, 30/12, 03/01) e in quelli di Basilio Salvatore Manzo (23/12, 27/12) / Alessandro Staiano (28/12, 30/12, 03/01) e Danilo Notaro (29/12, 02/01, 04/01).
Rudolf Nureeev aveva ricoperto il ruolo di Basilio già nel 1959, a 21 anni, dandone una brillante interpretazione assieme al Kirov Ballet di Leningrado. Rimise più tardi in scena il Don Chisciotte ideando una nuova versione coreografica basata sulla struttura di Marius Petipa e Alexandre Gorski modificata con aggiunta di nuova musica commissionata a John Lanchbery per per conferire al balletto un carattere più vivace e pieno di ritmo.
“Come diceva Nureev – racconta Charles Jude – Don Chisciotte è una specie di opèra-comique. Il balletto racconta solo una parte della storia originale raccontata da Cervantes: il matrimonio di Basilio a Barcellona. Petipa aveva preso questa parte più comica e il ruolo di Basilio era certamente più semplice e non difficile tecnicamente. Nureev ha aggiunto nella parte di Basilio due variazioni difficili e una per presentare il personaggio, nelle quali ha voluto riassumere e mostrare tutte le possibilità e le difficoltà tecniche della danza classica. Quando si danza la prima variazione di Basilio, è come aver danzato tutte le espressioni del linguaggio classico. Questo era Nureev”.
Note di Maria Venuso nel programma di sala
Don Chisciotte: note storiche di un successo letterario per le scene della danza
«Il Don Quijote rappresenta per Petipa il risultato della maturata collaborazione con Minkus, iniziata nel 1846 con Paquita a Parigi, e il segno tangibile di come la Russia era oramai diventata la patria dell’arte del movimento dei corpi e del gesto simbolico del suono […]. Il Don Quijote si inscrive […] nello sviluppo e nella canonizzazione della danza moderna al cui centro troviamo il Teatro Mariinskij che, insieme al Bol’ŝoj, si erge a tempio e palestra di tale arte […]». Le riflessioni di Leonardo V. Di Staso sul Don Chisciotte di Petipa ci ricordano che esso appartiene, per la danza, al momento culmine della parabola storica di questo titolo, divenendo un archetipo per tutte le versioni del balletto a memoria d’uomo.
In questa breve nota storica si cercherà di ripercorrere il ‘prima’ e il ‘dopo’ Marius Petipa, dedicando qualche riga in più allo sviluppo del soggetto in un momento preciso della storia del Teatro di San Carlo per tentare di scoprire (grazie alle più recenti ricerche in corso) quanto il terreno napoletano sia stato prezioso per la costruzione di ‘innovazioni’ di cui proprio il Don Chisciotte di Rudolph Nureev è considerato portatore. Ma procediamo con ordine.
Volendo ripercorrere la cronologia delle rappresentazioni coreiche derivate dal romanzo El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha di Miguel de Cervantes (1547-1616), è possibile dire che già nel Seicento, dopo che in Francia era cominciata a circolare la sua traduzione, il soggetto sia utilizzato per la danza. Dalla metà del Settecento, con la riforma del balletto, la danza può tuttavia annoverare nel suo repertorio titoli conservati nella memoria storica, come il Dom Quichot ou Les noces de Gamache di Franz Anton Hilverding per il Teatro Kärntnertor di Vienna del 1740; nel 1743 è la volta di Jean-Barthélemy Lany, che crea le coreografie per la comédie-lyrique Dom Quichotte chez la Duchesse per l’Académie Royale de Musique di Parigi, annoverando tra gli interpreti Marie Camargo, David Dumoulin e Louis Dupré. Nel 1765 Giuseppe Salomoni a Torino dà vita a Il combattimento di Don Chisciotte col Gigante, probabilmente da Hilverding. Nel 1768 Jean-Georges Noverre, all’epoca maître de ballet dei Teatri Imperiali di Vienna, realizza invece Don Chischott per il Burgtheater.
Le creazioni settecentesche non appaiono ancora incentrate sull’amore contrastato tra il barbiere e la figlia dell’oste, che nel romanzo di Cervantes sono Basil e Quiteria (o Chilteria), ed è solo nell’Ottocento che il balletto, così come lo conosciamo oggi, ha iniziato a prendere forma.
Prima di ripercorrere il secolo XIX è però opportuno soffermarsi sul soggetto ispanico al San Carlo di Napoli proprio nel Settecento. Se questo è definito – a ragione – ‘secolo d’oro’ per la musica, è importante sottolineare che esso si configura di privilegiata importanza anche per la danza, dato il vivace dibattito intorno alle arti promosso dal secolo dei Lumi e la pubblicazione, nella stessa città, di una triade di testi cardine per la declinazione italiana della danza europea: il Trattato del ballo nobile di Giambattista Dufort (1728), il Trattato teorico-prattico di ballo di Gennaro Magri (1779) e il libello polemico di Francesco Sgai, Al Signor Gennaro Magri (1779). Altro importante testo coevo, anch’esso citato in vari luoghi del trattato di Magri, è Dell’opera in musica di Antonio Planelli (1772), sempre stampato a Napoli, il quale tuttavia ha una visione della danza come intermezzo dell’opera in musica e insiste ancora una volta sulla funzione morale del teatro.
Il Trattato teorico-prattico di ballo, di Gennaro Magri, dal canto suo, ha la particolarità di essere dedicato sia alla tecnica professionale sia alla danza di sala e, in relazione al ballo teatrale, costituisce la prova della visibilità e dell’importanza dello stile grottesco, non offuscato a Napoli nemmeno dalle novità del ballo pantomimo. Il grottesco, infatti, prosegue attraverso i suoi principali caratteristi anche nel corso delle prime decadi dell’Ottocento, per contribuire alle innovazioni tecniche (come lift, prese, punte) che saranno studiate in loco da personalità quali le sorelle Elssler e la stessa famiglia Taglioni (che le esporterà successivamente nell’Europa continentale). Con la riforma del balletto e l’irradiamento degli allievi di Noverre in tutta Europa, l’arrivo del suo allievo Charles Le Picq a Napoli segna l’ingresso del ballo riformato propriamente detto al San Carlo: quella del 1773-74 è infatti una stagione cruciale, per cui si è spesso parlato di «monopolio del ballet d’action noverriano», a partire proprio dall’arrivo di Le Picq, che coincide con la fine della permanenza di Gennaro Magri al San Carlo.
La gestione dell’elemento esotico gitano non era una novità sulle scene partenopee e lo stesso Magri, nel suo trattato, oltre ad analizzare le posizioni della ‘bella danza’ e quelle ‘false’ tipiche dei grotteschi inserisce anche le posizioni della danza spagnola (per motivi storici essa appariva naturalmente integrata nel ‘lessico’ dei danzatori napoletani). Nella prima parte del suo scritto Magri (capitolo VII detto Delle positure de’ Piedi) fissa le posizioni cosiddette false, in aria, forzate e alla Spagnuola,da lui aggiunte alle posizioni dei piedi canoniche dette vere. Si tratta di eredità che resteranno ben solide nelle danze di carattere di analoga ambientazione fino a Petipa e oltre, nella prassi spettacolare di tutte le compagnie.
A proposito del nostro soggetto invece, Le nozze di Camaccio, o sia Don Chisciotte in casa del Duca di Charles Le Picq, nel 1779, è il secondo ballo nell’opera Creso in Media di Joseph Schuster e costituisce l’unica messa in scena ‘meridionale’, per la danza, del fortunato tema dell’ingegnoso hidalgo. Questo ci permette di salvare un tassello fino ad oggi escluso nel percorso storico degli antecedenti delle messe in scena danzate del romanzo di Cervantes, che appunto con Marius Petipa su musica di Ludwig Minkus sarebbe diventato, a partire dalla prima del 1869, una pietra miliare del repertorio ballettistico internazionale, non certo per il valore della partitura musicale o della elaborazione del tema, quanto per la genialità dell’impianto coreografico. Una selezione di episodi dal soggetto principale, tra cui la rivalità fra Basilio e Camaccio per l’amore di Quiteira e la comicità suscitata dalla follia di Don Chisciotte, sono il fulcro su cui il balletto – nella seconda parte dell’Ottocento – incentrerà il proprio successo permettendo alla coreografia di trionfare. La stessa cosa, da quello che si può intuire dal libretto, accade in questa versione napoletana di Le Picq, con ogni probabilità sulla scorta del noto ballo di Franz Anton Hilverding del 1740.
Ma non è facile, attraverso le fonti posteriori, cercare di intuire se il ballo di Le Picq costituisca un anello di congiunzione efficace nella trasformazione dei generi e nella storia del repertorio in sé. C’è ancora molto da indagare al riguardo.
La prima creazione importante del nuovo secolo si ha nel 1801 all’Opéra di Parigi, con Les Noces de Gamache di Louis Milon (all’epoca maître de ballet adjoint di Pierre Gardel), interpretato da Auguste Vestris nel ruolo di Basil e Jean-Pierre Aumer in quello di Don Chisciotte. Il balletto di Milon diventa un paradigma per le creazioni successive. Il giovane Louis Duport vi interpreta un contadino accanto ai due fratelli Taglioni, Filippo e Salvatore: Les Noces de Gamache, balletto-pantomima-folie en deux actes, Représenté, pour la première fois, à Paris, sur le Théâtre de la République et des Arts, le 28 Nivôse an 9; Par L.-J. Milon […] (Paris: Dupré, [1801]).
Del 1808 è il Don Kikhot di Charles-Louis Didelot, per il Teatro Imperiale di San Pietroburgo, mentre nel 1837 anche August Bournonville crea una sua versione per il Teatro Reale danese, Don Quixote ved Camachos Bryllup, da lui stesso danzato nel ruolo di Basil e da Lucile Grahn in quello di Quiteira.
Una versione italiana dal titolo Le avventure di Don Chisciotte è invece del 1843, creata da Salvatore Taglioni, per il Teatro Regio di Torino.
A dare vita alla versione ‘madre’ del repertorio classico alla fine del XIX secolo è dunque Marius Petipa (1818-1910), ispiratosi al romanzo di Cervantes solo in parte. Costruito sull’archetipo di Milon, la versione di Petipa richiama l’eco dei balletti del primo Romanticismo con l’inserimento dell’atto delle Driadi, tipico ‘atto bianco’ che rappresenta il dualismo tra il sogno e la realtà, sviluppando però un esito a lieto fine. Qui il vecchio cavaliere è circondato dalla modesta realtà della figlia di un oste, promessa in matrimonio dal padre a un ricco quanto sciocco marchese, e di un barbiere povero ma bello, che in un’atmosfera festante e talvolta grottesca riescono a superare gli ostacoli frapposti alla loro unione. Don Chisciotte, eroe triste ed emblema dell’amore per l’impossibile, è il solo palese richiamo al romanzo di Cervantes, dal momento che nell’economia del balletto la ben più semplice storia d’amore fra Kitri e Basilio eleva i due popolani a personaggi principali, ridimensionando quasi totalmente il significato del folle cavaliere e la valenza delle sue gesta.
La prima assoluta al Teatro Imperiale Bol’šoi di Mosca ha luogo il 26 dicembre del 1869, come balletto in un prologo, quattro atti e otto quadri. Scene e costumi sono curati da Pavel Isakov, Fiodor Šenijan e Čanguine; interpreti principali Anna Sobeščanskaja (Kitri), Sergej Solokov (Basilio), Wilhelm Vanner Gillert (Don Chisciotte), Vassilij Geltser (Sancho Panza), Leon Espinosa (Arlecchino), Dimitrij Kuznetsov (Gamache), Polina (Pelageja) Karpakova (Dulcinea).
Si tratta di una creazione presto modificata, poiché il 21 novembre del 1871 al Bol’šoi Kamennyj di San Pietroburgo, il balletto articolato in un prologo, cinque atti e undici quadri, sempre su musiche di Minkus (1826-1917) all’epoca compositore ufficiale dei Teatri Imperiali, va in scena con delle varianti finalizzate ad adattare il tutto al gusto del più raffinato pubblico sapietroburghese. Il soggetto ambientato in Spagna forniva al coreografo l’occasione per introdurre le danze nazionali di quel paese, che egli aveva imparato durante i quattro anni del suo soggiorno a Madrid, dal 1842 al 1846. Infatti, nella prima versione, solo il personaggio di Dulcinea – peraltro ancora distinto da quello di Kitri e perciò interpretato da un’altra ballerina – danzava secondo i canoni accademici puri, mentre si susseguivano diverse danze di carattere spagnolo attinte dal folklore locale, come una zingaresca, una jota aragonese, una seguidilla, un fandango, una lola e una morena danzata da Kitri e Basilio, oltre a una danza di toreri armati di spade.
Per il pubblico moscovita, meno raffinato, il coreografo aveva precedentemente creato un balletto ricco di artifici scenici e di elementi comici e grotteschi (ecco una sorta di ‘continuità’ con quanto detto prima a proposito del San Carlo e dei grotteschi napoletani). Come riporta Valeria Morselli: «nella scena del campo degli zingari, Kitri, scappata di casa vestita da uomo per sfuggire al matrimonio con Gamache, prendeva parte a una danza comica in cui un Arlecchino (il celebre danzatore grottesco Leon Espinosa), con in mano una gabbia per uccelli, cercava di catturare alcune allodole, rappresentate da sei danzatrici oltre alla protagonista. La folle battaglia di Don Chisciotte contro i mulini a vento era dovuta alla sua volontà di soccorrere la luna attaccata da giganti immaginari» e così via per altre scene comiche. La prima versione aveva dunque tutte le caratteristiche di una commedia, nella quale si riversano diversi passaggi del romanzo di Cervantes accompagnati da scene di fantasia trattate con un fine umorismo. Il balletto rappresentato a Mosca aveva ottenuto un gran successo di pubblico, perciò tre anni dopo Petipa lo ripropone nella capitale adattandolo al luogo. La nuova versione del 1781 ha come interpreti principali Alexandra Vergina (Kitri/Dulcinea), Lev Ivanovič Ivanov (Basilio), Timofei Stukolkin (Don Chisciotte), Nikolaj Golz (Gamache). Le modifiche conferiscono ora maggior rilievo alla danza classica pura rispetto agli elementi basati sulle danze nazionali, le quali appaiono qui notevolmente ridotte e stilizzate secondo i canoni accademici, così come sono eliminate le parti comiche e grottesche (la cattura delle allodole, il combattimento con i cactus e la luna in lacrime) ed è modificato totalmente l’episodio del sogno di Don Chisciotte, che diventa un vero e proprio ‘atto bianco’ popolato da esseri sovrannaturali. Nel sogno infatti lo hidalgo, dopo aver ucciso il ragno gigante, viene catapultato nel regno delle Driadi (ninfe dei boschi), a cui fanno corona cinquantadue piccoli Cupidi, interpretati dagli allievi della Scuola di Ballo dei Teatri Imperiali. Inoltre il personaggio di Dulcinea è qui unificato a quello di Kitri e interpretato dalla stessa danzatrice.
L’atto aggiunto, costituito da tre quadri, rappresenta il castello del Duca e della Duchessa, rievocando così un altro episodio del romanzo e divenendo l’ambientazione ideale per il divertissement finale delle nozze dei due innamorati, al quale partecipano anche i cinquantadue piccoli Cupidi dell’atto bianco. Questa versione termina con la morte di Don Chisciotte, in adesione alla trama letteraria.
La versione di Petipa del 1871 rimane in repertorio in Russia per più di trent’anni senza mai essere modificata, fino a quando nel 1900 il balletto è rivisitato dal danzatore Aleksandr Gorskij (1871-1924) per il Teatro Bol’šoi di Mosca, di cui era coreografo principale, con la riduzione a soli tre atti e sei quadri e con la musica di Minkus integrata da brani del compositore Anton Simon.
Nel 1902 Gorskij, allievo di Petipa, porta questa sua stessa versione al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo (già Bol’šoi Kamennyj) con il titolo Don Chisciotte della Mancia e con interpreti d’eccezione quali Matil’da Kšesinskaja (Kitri/Dulcinea), Nikolaj Legat (Basilio), Aleksej Bulgakov (Don Chisciotte), Enrico Cecchetti (Sancho Panza), Pavel Gerdt (Gamache), Ol’ga Preobraženskaja (Mercedes), Tamara Karsavina (Cupido), Anna Pavlova (Juanita). Gorskij integra le parti mimate con elementi realistici ed elimina l’uniformità del corpo di ballo, caratteristica in Petipa, enfatizzando l’individualità di ciascun danzatore con l’assegnazione di una diversa gestualità.
Modifica la danza dei toreri, creando il Grand pas des toreadores eseguito da otto ballerini e dal torero Espada, oltre alle variazioni solistiche della Danzatrice di strada (danza dei pugnali). Un altro suo sostanziale intervento riguarda la scena del sogno, dove introduce il personaggio della regina delle Driadi e la sua variazione (sulla musica di Anton Simon), inserisce la variazione di Cupido estrapolandola dal Grand pas classique di Paquita e aggiunge una nuova variazione per la Kšesinskaja nel ruolo di Dulcinea, con la musica di Riccardo Drigo (1846-1930) creando, sempre per la Kšesinskaja su musica di Drigo, la variazione di Kitri col ventaglio per il Grand pas de deux del terzo atto. Anche se a San Pietroburgo la versione di Gorskij all’epoca non fu apprezzata, è rimasta a lungo sia nel repertorio del Bol’šoi di Mosca sia del Mariinskij di San Pietroburgo ed è stato in questa forma che il balletto si è diffuso al di fuori della Russia.
Tra le versioni successive più note, si ricorda l’introduzione del balletto in Occidente nel 1924 per opera della compagnia di Anna Pavlova (1881-1931), con una versione abbreviata in due atti alla Royal Opera House di Londra, coreografia di Laurent Novikov. Del 1965 la versione di George Balanchine per il New York City Ballet, con la musica di Nicholas Naboko e la versione creata nel 1978 da Mikhail Baryšnikov per l’American Ballet Theater.
È possibile però affermare che una vera rinascita del balletto in Europa si sia avuta per opera di Rudolph Nureev (1938-1993), che nel 1966 ne cura una ripresa per lo Staatsoper di Vienna, modificando la successione di alcuni quadri. Nureev, per carattere, fisicità e tipo di tecnica appare molto affine al personaggio di Basilio: nel 1959, all’età di ventun anni e con Ninel Kourgapkina come partner, lo interpreta brillantemente con il Balletto del Kirov di Leningrado. Una volta scelto di rimanere in Occidente, nel 1961, questo ruolo diviene uno dei suoi cult, mettendo in luce un’altra sfaccettatura del ballerino/attore, il suo spirito malizioso e il suo dono per la commedia. Nureev danza il Pas de deux finale con Sonia Arova già nel 1962 a New York e in seguito rimette in scena l’intero balletto, ideando una nuova coreografia su modello di Marius Petipa e Alexandre Gorskij, appunto, per l’Opera di Stato Vienna nel 1966, chiedendo inoltre a John Lanchbery di lavorare su diversi arrangiamenti della musica di Minkus, in modo da conferirle un carattere più vivace.
Lo riprende nel 1970 per l’Australian Ballet (con Lucette Aldous) e l’anno successivo con il Balletto dell’Opera di Marsiglia, diretto in quel periodo da Rosella Hightower (Maïna Gielgud interpreta il ruolo di Kitri).
Scrive Alexander Bland: «Questa versione mostra ancora più chiaramente il modo in cui Nureyev ha gestito i grandi movimenti sul palcoscenico: i numeri spagnoli vorticano intorno all’enorme piazza del villaggio e formano un’ingegnosa diversità di configurazione volta a dimostrare i passi caratteristici della Spagna.
Sebbene la sequenza puramente classica della ‘visione’ di Dulcinea e delle Driadi sia stata eseguita nella sua interezza – esattamente come è stata tramandata dalla tradizione del Kirov – Nureev la fa precedere da una scena che coinvolge un accampamento di zingari come pretesto per sviluppare un incontro amoroso tra Kitri e Basil: un Pas de deux al chiaro di luna sotto le vele di un gigantesco mulino a vento.
Anche Rudolf Nureev accorcia il balletto a tre atti con prologo: gli zingari, i mulini a vento, il teatro delle marionette diventano un’unica scena, seguita dall’apparizione delle Driadi.
Nureev amplia notevolmente l’aspetto comico. Nella sua versione introduce lo spirito della Commedia dell’Arte, dove Don Chisciotte è Pantalone, Kitri Colombina e Basilio Arlecchino, un brillante, veloce … saltellante maestro di cerimonie, che corre da un capo all’altro del balletto».
Alla luce di quanto brevemente riportato qui e assistendo alla messa in scena del Don Chisciotte di Nureev, sembra che i grotteschi del Settecento siano oggi sopravvissuti attraverso la loro tecnica e che siano ancora attivi sulle scene di oggi; il più grande ‘grottesco’ del Novecento appare proprio Rudolph Nureev, grande innovatore delle riprese dei classici. Nei suoi allestimenti ai danzatori non è dato alcun riposo nei momenti di passaggio da una diagonale all’altra o da un assolo a un manège: è la rivincita di una tecnica che ancora stupisce e i cui movimenti (molti proprio come descritti da Gennaro Magri) Nureev rende significanti e porta in scena nelle sue riprese coreografiche. A questo proposito un piccolo filmato della variazione di Basilio del I atto, per la sua ripresa, nel 1973, del Don Chisciotte con l’Australian Ballet (disponibile in rete) parla chiaro: gli assemblé all’italiana (ossia quelli con le gambe ritirate che durante il romanticismo maturo servivano a nascondere i piedi delle danzatrici sotto i lunghi tutù e/o a conferire un’altezza maggiore ai salti maschile) sono ripresi da Nureev, formatosi alle danze popolari prima di entrare all’Accademia di San Pietroburgo, e ci ricordano nel lungo e complesso processo di contaminazione dei prodotti coreici quanto l’Italia e Napoli abbiano costruito, in termini di tecnica e stile, la storia della danza europea.
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